Il Pinocchio senza retorica di Livia Gionfrida e la poesia di Scaldati
Gionfrida affronta la sfida con la giusta serietà: studia gli spettacoli manifesto di Scaldati (“Il pozzo dei pazzi”, “Assassina”, Totò e Vicè”), legge il testo scaldatiano, lo studia, lo mette in prospettiva e prova a misurarne la distanza con l’originale di Collodi, se ne va a Palermo e ascolta con umiltà e orecchio partecipe i suoni di questa città, le sue “voci di dentro”, intervista e ascolta coloro che con Scaldati hanno vissuto e lavorato, prova a scoprire i colori, i sapori, gli odori, le asprezze e le concretissime dolcezze di quel mondo e di quanto di esso si è trasformato in poetica. Ha ben chiaro che non si costruisce – davvero non si può – uno spettacolo soltanto ripetendo sulla scena i dialoghi presenti in un testo narrativo e lavora con intelligenza e sensibilità: ne vien fuori un allestimento che, pur nel contesto di un omaggio affettuoso al drammaturgo palermitano, è totalmente suo. Lo spettacolo si dispiega su due piani: da una parte si prova a restituire il mondo poetico di Scaldati in alcuni brevi segmenti di questo Pinocchio ruvidamente siciliano e antiretorico (la fata Turchina di Rory quattrocchi è straordinaria), dall’altro dà forma d’evento e un ritmo percepibile al flusso di immagini, frammenti, racconti e personaggi che, diversamente, non avrebbe potuto avere alcun esito d’arte. Pinocchio appunto e poi la Fata Turchina, Geppetto, Mangiafuoco e il suo carro, il Carabiniere, Lucignolo, il Grillo parlante: emergono dall’oscurità e si autorappresentano come in un respiro che è azione teatrale, memoria e liberazione dell’autentico dalle trappole retoriche della memoria. Sono tutti personaggi che fanno parte dell’immaginario di moltissimi di noi, ma che qui sembrano riemergere dall’oscurità come nuovi e portatori di nuovi e meno rassicuranti significati, sembrano emergere nella libertà del mondo poetico di un secondo demiurgo che non li manipola, anzi li lascia liberi nelle loro mancanze e sembra contemplarli affettuoso e divertito. L’aggancio col pubblico avviene su questi due piani d’arte ed è un aggancio che convince ed emoziona con delicatezza e intelligenza, fino alle battute finali in cui ritorna la voce registrata del drammaturgo palermitano che gioca sornione con la sua stessa poesia: «….trasparenti fa rima ….con senza denti….». Ecco tutto: il sublime e delicato della tradizione letteraria che si fonde al basso corporale della cultura materiale dei quartieri popolari di Palermo e una regista che sa cogliere il miracolo di questa fusione e le concede ritmo e grazia. In scena, complici divertiti e solidi della regista, ci sono Aurora Quattrocchi (davvero grande), Alessandra Fazzino, Manuela Ventura, Cosimo Coltraro, Serena Barone, Domenico Ciaramitaro; le luci sono di Gaetano la Mela i suoni e l’audio sono curati da Giuseppe Alì. In scena dall’