di Andrea Marinelli
È stata criticata per la gestione della crisi migratoria, e accusata da 22 collaboratori anonimi di aver creato un ambiente di lavoro tossico e disorganizzato. Ma tutto forse dipende dalla sua probabile candidatura alle prossime elezioni presidenziali
Si dice che fare il presidente degli Stati Uniti sia il lavoro più difficile del mondo, ma esserne il vice è forse ancora più complicato: lo sa bene Joe Biden, che è stato per otto anni il numero due di Barack Obama e inizialmente non voleva neppure accettare l’offerta, e lo sta scoprendo ora anche Kamala Harris, entrata in carica da sei mesi e già sottoposta a critiche spietate, in arrivo da destra e da sinistra. In queste settimane, la prima donna arrivata alla Casa Bianca è stata attaccata duramente per la gestione della crisi migratoria, compito complesso affidatole dal presidente Biden: prima è stata criticata per il viaggio in Messico e Guatemala, dove invitò i migranti centroamericani a non recarsi illegalmente negli Stati Uniti, poi per quello lungo il confine, quando scelse di fare tappa al centro di detenzione per immigrati irregolari di Fort Bliss, arrivato troppo tardi, secondo i conservatori, e nel luogo sbagliato, secondo i democratici che temevano di apparire deboli su una questione fondamentale quanto divisiva.