Review Papa Giovanni Paolo II In others, lazio, italy | Political In Others
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Papa Giovanni Paolo II
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Lazio,Italy - 00100
Detailed description is « Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura!.Habemus Papam. Era la sera del 16 ottobre 1978: iniziava la lunga epoca del primo Papa polacco, un pontefice che ha fatto una quantità di volte il giro del mondo, e ha rischiato di essere ammazzato proprio a casa sua. La carriera di Karol Wojtyla non fu, propriamente, clericale. Prima di essere Papa era stato minatore, aveva probabilmente amato una ragazza, e quasi certamente imparato a bere birra in quel di Cracovia. Il passo compiuto, diventando sacerdote intellettuale, dallo scolaretto di spiccata sensibilità religiosa cresciuto nell’ortodossa e sempre fedele tradizione cattolica polacca, fu comunque breve. Già in giovinezza lo incontriamo nelle vesti di filosofo “personalista”, con una produzione che va dagli articoli sul teatro alla tesi di dottorato su Max Scheler, alle riflessioni di filosofia sociale, precedenti di poco la sua elezione al pontificato. Uno dei suoi più attenti commentatori, Tadeusz Styczen, definirà l’opera complessiva di Wojtyla come una sorta di “trattato sull’uomo”. Nel suo lungo pontificato Giovanni Paolo II incontrò tutti i maggiori leader, politici e non, mondiali: presidenti, premi Nobel, cantanti, musicisti, scienziati e perfino calciatori e nemici carissimi. Tutto ciò induceva a una visione, anche politica, della Chiesa tutt’altro che arcigna e ripiegata sui sacri palazzi, bensì aperta e generosa con tutti. E’ certo che non fu un Papa rinascimentale. Non fu un principe tra tanti principi. Era la politica che lo cercava, non lui che cercava la politica. E in ciò Papa Wojtyla fu forse meno machiavelliano di un Alessandro VI, il quale, se non brillò di specchiata moralità, comprese invece molto bene che la politica è meglio farla che subirla. Così c’è da sospettare che non fu un caso se la storia si trovò quasi simultaneamente al cospetto di due campioni dell’anticomunismo: Wojtyla appunto, e Reagan. Politicamente parlando, il pontificato si segnalò subito per il suo appassionato patriottismo, che traeva linfa vitale dal vero, grande ispiratore di Solidarnosc, ancora una volta il primate Wyszynski, che già nel 1964 andava dicendo: “La Resurrezione di Cristo va considerata come una certezza politica della resurrezione della Polonia”. Se negli anni Ottanta Giovanni Paolo II è stato il simbolo della resistenza “morale” al comunismo fino al suo tracollo, alla caduta del Muro il Papa polacco fu tentato di salutare con giustificato entusiasmo l’inaugurazione della nuova epoca dei Diritti Umani e della Democrazia. Ma che la storia non fosse finita lì, lo fece capire di lì a poco la guerra del Golfo. Poco mancò che l’enorme popolarità mediatica conseguita dal Papa nel decennio precedente si sgretolasse. Giovanni Paolo II fu coraggiosamente contro la “guerra giusta” di George Bush il Vecchio (1991, undici anni dopo fu anche contro la guerra di Bush il Giovane) e ne subì tutte le conseguenze. Le sue parole, un tempo glorificate come sintesi di autorità morale mondiale, furono riportate sul piano dell’aspirazione morale. E dei relativi, sia pur legittimi, interessi di parte. In quell’occasione dovette ricevere anche le pressioni di Israele – e ciò significò da parte sua subire un’offensiva televisiva e a mezzo stampa senza precedenti – perché il Papa prendesse apertamente le difese dello Stato ebraico minacciato dai bombardamenti degli Scud iracheni. Così alla fine il Papa, come in altre occasioni, premuto dalla grancassa mediatica, parlò. Le polemiche antivaticane si placarono immediatamente, e nessuno più ricordò che l’allora ministro degli Esteri israeliano, il sefardita David Levy, ancor prima che Giovanni Paolo II rompesse il riserbo contro Saddam, finì quasi per venire alle mani, nella Knesset vociante contro il Vaticano accusato di patrocinare il secondo Olocausto, per difendere la condotta del Pontefice. Ciò naturalmente derivava in Levy dalla consapevolezza che le questioni rimaste irrisolte tra Israele e Vaticano erano e restavano per Gerusalemme ben più importanti di qualsiasi Saddam. Del quale peraltro, la settimana precedente il conflitto, mentre il mondo tremava al pensiero (indotto dai media occidentali) dell’armata di Baghdad, i giornali israeliani avevano già scritto a titoli cubitali: “Lo faranno a pezzi” (Ha’aretz). Levy più che alla guerra, pensava giustamente al processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede, che segretamente sarebbe stato avviato di lì a qualche mese. Sì, perché non tutti sanno che tale processo fu concepito e iniziato non dal governo laburista di Yitzhak Rabin, che ebbe invece il merito di assecondarlo con coerenza e disciplina, ma dall’esecutivo di un altro Yitzhak, quello brusco e all’apparenza intransigente capo del Likud, Shamir. Patrocinato dalla destra, il disgelo tra Israele e Vaticano iniziò così nella primavera del 1992, con la decisione di istituire un canale di dialogo informale e permanente tra funzionari del ministero degli Esteri ed emissari della Delegazione apostolica in Terrasanta. Dunque, sotto la benevola tutela di Giovanni Paolo II, la diplomazia vaticana – che nel frattempo non aveva rinunciato di un millimetro alla sua tradizionale posizione che subordinava de facto il pieno riconoscimento di Israele a un contestuale atto di riconoscimento da parte dello Stato ebraico nei confronti dei palestinesi – realizzò il suo capolavoro; così, in breve si venne al tavolo delle trattative e il 30 dicembre 1993 le parti sottoscrissero lo storico “Accordo Fondamentale”. Non sarà stata una coincidenza: la stretta di mano tra Rabin e Arafat che virtualmente, ma in quegli anni sembrava pure realisticamente, poneva fine al conflitto israelo-palestinese (prima che Rabin finisse come è finito e di nuovo tornassero la guerra dei coloni e la seconda Intifada e i kamikaze e i tank: insomma prima dell’11 settembre 2001) e segnava il reciproco riconoscimento tra Israele e Olp era avvenuta solo tre mesi prima, il 13 settembre 1993. Contestualmente tutta la storia dei rapporti tra ebrei e cattolicesimo si riapriva sotto l’insegna del dialogo. C’era già stato un fatto di rilevanza epocale: il Papa per la prima volta in una sinagoga, quella di Roma, aveva pregato con il rabbino capo, Elio Toaff. Ne seguirono altri. Il Papa che chiede perdono alla comunità ebraica per le responsabilità dell’antisemitismo della Chiesa cattolica. Che invita i cristiani a imparare dalla storia del popolo di Abramo e a riconciliarsi con i “fratelli ebrei”. Il Papa a Gerusalemme. A dire il vero sotto il segno di Giovanni Paolo II anche i rapporti tra Italia e Vaticano conoscono una svolta politico-diplomatica di straordinaria rilevanza. Merito anche di Bettino Craxi, presidente del Consiglio alla metà degli anni Ottanta, il quale ebbe il coraggio e la decisione di realizzare il nuovo Concordato con la Chiesa cattolica. Anche solo per questo successo, che non fu conseguito né dai democristiani, né dai laici prima di lui al governo, la memoria del leader socialista è consegnata alla storia politica italiana. Wojtyla fece molte altre cose, nel suo lungo pontificato: innanzitutto assegnò cariche cruciali nella gerarchia cattolica a uomini di provata virtù politica e teologica. Consegnò la segreteria di Stato nelle mani del cardinale Angelo Sodano, che assunse il delicatissimo ruolo diplomatico che era stato di Agostino Casaroli, suo diretto predecessore e teorico-pratico della Ostpolitik vaticana negli anni della Guerra fredda; stabilì come massimo custode della dottrina il bavarese Joseph Ratzinger. Osso duro dell’ortodossia quest’ultimo, che ebbe a spezzare più di un fianco: come quello di Hans Küng; e soprattutto quelli di teologi della liberazione come Leonardo Boff. Sempre in ambito ecclesiale Giovanni Paolo II fece sua la dura, ma ormai divenuta inevitabile decisione di sospendere a divinis il vescovo tradizionalista Marcel Lefebvre. Il Papa polacco fu per altro felicemente sorpreso dalla vivacità dei movimenti, ai quali diede ampia fiducia e il mandato di rievangelizzare l’orbe terraqueo. Fu vicino a carismi baldanzosi di fede razionale e presenza sociale come quello di Comunione e liberazione, alla vocazione culturale, elitaria ma capillare dell’Opus Dei, seppe apprezzare le forme popolari di neocatecumenali, carismatici, focolarini. Tutti li accolse in pubblica udienza in piazza San Pietro, per una giornata (30 maggio 1998) che volle interamente dedicare a loro, un chiaro segno di definitiva uscita dalla semiufficialità. Particolarmente significative le parole scritte a don Luigi Giussani in una lunga e commossa lettera autografa del febbraio del 2002, per il ventennale del riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl, in cui il Papa ringraziava il fondatore di Cl per “l’opera educativa” compiuta: “Il movimento – scrisse il Papa – ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione del dramma esistenziale dell’uomo”. Giovanni Paolo II ebbe anche una propensione particolare – che taluni ritennero e tuttora ritengono forse un po’ troppo precipitosa – ai generali mea culpa per gli errori storici dei cristiani. Chiese perdono agli ebrei, agli ugonotti, agli ussiti di Boemia, alle donne, ai popoli del Terzo mondo, a Galileo. E ciò si sposava bene con la sua attitudine ecumenica che si manifestò in un celebre, quanto contestato, rito di preghiera ad Assisi, presenti i capi delle maggiori religioni. Fu definito il Papa più carismatico, ma anche il più conservatore. Intransigente sull’aborto, disse no alle donne sacerdote, no ai preti sposati, no alla clonazione, no agli esperimenti sull’embrione umano, no alla pillola, no al preservativo. E nonostante sembrasse che i mali estremi del nostro tempo esigessero rimedi analoghi, Giovanni Paolo non accettò mai di abbassare la sessualità al rango di igiene. Ebbe invece una visione religiosa, cioè umana, anche del sesso. In “Amore e responsabilità” fece seguire alla “metafisica del pudore” un vero e proprio breve manuale di sessuologia. Un Papa di cultura ed esperienze tutt’altro che bacchettone dunque, ma che non volle mai cedere al puritanesimo. La prima volta che lo sentimmo predicare eravamo confusi tra la folla accampata alla periferia di Czestochowa. Era una bella giornata dell’agosto 1977 e noi seguivamo il grandioso pellegrinaggio alla Madonna Nera di Jasna Góra. L’allora cardinale Karol Wojtyla si trovava alla testa di un popolo il cui corteo si snodava per decine di chilometri nella piatta campagna polacca. Dalle colline il colpo d’occhio inquadrava il formidabile spettacolo di centinaia di migliaia di ragazzi, adulti, vecchi, bambini. C’era già in nuce l’impronta popolare e universale del pontificato dell’uomo venuto da Cracovia. Già nel 1977 la Chiesa di Wojtyla era l’avamposto di una resistenza silenziosa e, insieme, spettacolare. In quelle campagne di Polonia non si sentivano soltanto i primi echi della pacifica rivoluzione operaia di Solidarnosc che si andava organizzando nei cantieri navali di Danzica. Nel santuario di Czestochowa era visivamente chiaro che la Chiesa, Regina di libertà, stendeva il suo manto a protezione anche di coloro che se ne dichiaravano estranei per principio, come quei ragazzi anarchici e punk, fasciati nei loro giubbotti in pelle nera, borchie e tatuaggi, che vedemmo accampati entro i cancelli di cinta del santuario mariano polacco. E forse fu proprio dalla Madonna di Czestochowa che Wojtyla trasse lo spirito del grande disegno ecumenico e di riconciliazione che, quasi non facendo differenza tra ambito religioso e laico, guidò il pontificato. Grandioso compendio di quel disegno sarà il duplice gesto di “Purificazione della memoria” e di abbraccio a Israele. A ragione, l’israeliano padre David Jaeger scrisse del Papa pellegrino a Gerusalemme: “Non è stato un successo, è stato un trionfo. Si è conquistato i cuori in Israele della maggioranza”. O in che altro modo vogliamo spiegare il fenomeno per cui – rilevarono i sondaggi israeliani – un Papa atterrato come un simpatico estraneo a Tel Aviv, pochi giorni dopo rientra in Vaticano come il personaggio più popolare d’Israele, con un indice di gradimento maggiore perfino del Gran Rabbino? Ciononostante c’era chi non si rassegnava all’idea che l’uomo venuto dall’Est dovesse durare ancora a lungo. Questo spiega perché i corrispondenti internazionali restarono a Roma per tutti gli anni 90, perché la Cnn noleggiò un attico vista San Pietro e perché un giorno del 1992, in un viaggio tra Roma e Rimini, Carl Bernstein (il socio di Woodward nel Watergate), disse di lui “non arriva alla fine dell’anno”. Seguì più di un decennio di illazioni a cui il Padreterno non volle dar credito. Nemmeno a quelle più autorevoli. I duemila anni della storia di Cristo nel mondo Wojtyla li festeggiò il 15 agosto a Roma, nella buona compagnia di due milioni di giovani venuti da ogni dove. Quella volta riuscì a sorprendere perfino il non più giovane titolare di uno show televisivo ai Parioli, che il giorno seguente chiosò: “Avanti, sapete indicarmi un uomo politico capace di ottenere una simile partecipazione? Abbiamo guardato nella stessa sera in tv le immagini scialbe e ripetitive della convention americana che deve candidare Al Gore alla presidenza degli Stati Uniti. Non si può nemmeno fare un paragone. ‘Cristo vi conosce a uno a uno’ e noi abbiamo avuto la sensazione che fosse vero anche per chi passivamente era davanti al teleschermo”. Dopo l’11 settembre 2001 fu tutto più difficile per il Pontefice. Ma il Papa disse quello che un Papa deve dire, invitò ad alzare gli occhi al cielo e implorò a Dio il miracolo di un cambiamento. Ma rammentò anche che occorreva “il perdono” sì, ma nella “giustizia”. Sì alla legittima difesa, no alla vendetta. Poi il ginocchio prese a fargli male sul serio e qualcuno iniziò a pensare al peggio quando neppure la domenica delle Palme del 2002, per la prima volta nella storia di un pontificato, il Santo Padre lasciò che fosse il cardinal Camillo Ruini a celebrare la messa dell’entrata di Gesù in Gerusalemme. Il pensiero di Wojtyla è stato generoso, ma si potrebbe dire che il nucleo di tutto il suo messaggio era già contenuto nella “Redemptor Hominis” (1979), la sua prima enciclica. Calcando in lungo e in largo il pianeta non fece altro che ripetere quel titolo: “Cristo redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia”. Ma il pontificato “dal volto umano” di Giovanni Paolo II si vide soprattutto prima che, a causa dell’attentato di Ali Agca, si chiudessero le maglie della sua vita privata: e cioè negli anni in cui diede a tutti la netta impressione che anche il Papa è uno di noi. Ed è in questa sua nota di umanità vera che si distingue la peculiarità del pontificato di Karol Wojtyla; di un uomo che sembrava ricordare bene che Pietro era stato un povero pescatore. Per questo il Papa polacco non disdegnava le nuotate in piscina, né sciare tra i monti dell’Abruzzo o andare a passeggio in Val d’Aosta. E’ stato il Papa più girovago e presenzialista della storia della Chiesa. Gli piaceva viaggiare, per motivi evangelici evidentemente, ma anche perché, ipotizziamo, non doveva trovarsi molto a suo agio in Vaticano, dove si sentiva un po’ troppo protetto, e forse un po’ troppo amministrato. Ebbe una visione poetica della fede e un senso del mistero forte e profondo. Così come lo abbiamo visto giganteggiare sui palchi del pianeta, immerso tra distese oceaniche di folle, da Antananarivo a Città del Messico, con il vento che gli faceva svolazzare il bianco mantello e la mano stretta al vincastro di Pietro, gli occhi socchiusi sempre come in un pensiero, in una preghiera, in un anelito di domanda, che col tempo sembrò aprire la breccia a una oscura sofferenza, che poteva sembrare – e forse lo era – il ricordo di una Beatrice. Lo abbiamo visto aggrottare la fronte, baciare bambini bianchi, neri e gialli, interloquire con essi con espressioni tenere di padre. Il suo volto, la sua immagine, vennero utilizzati dai media. Gli fecero addirittura interviste, sicuri che sarebbero state best seller. Ma lui scriveva poesie che erano elegie. Lui non faceva altro che prepararsi al destino di ogni uomo, prepararsi a morire, al passaggio pasquale scriveva lui. Nel “Trittico Romano”, suo ultimocomponimento poetico, Wojtyla contempla il Michelangelo della Sistina, vede se stesso nel conclave dell’agosto 1978 e sembra intravvedere anche il “con-clave” dopo la sua morte – memento ai cardinali che voteranno il nuovo Pietro? Scrive: “All’uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo/ ‘Con-clave’: una compartecipata premura del lascito delle chiavi, delle Chiavi del Regno/ Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine/ tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio/ E’ dato all’uomo di morire una sola volta e poi il Giudizio!/ Una finale trasparenza e luce./ La trasparenza degli eventi/ La trasparenza delle coscienze/ Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni al popolo/ Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius/ Tu che penetri tutto – indica!/ Lui additerà…”. .
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